Graziella AtzoriPubblicato il 09-11-2020
“La zona rossa” nel libro di poesie di
Raffaele Castelli Cornacchia
Un
ritratto solitario ed eroico emerge dal libro di poesie di Raffaele Castelli Cornacchia,
che prende il titolo dalla zona rossa all'attenzione di tutti all'inizio della
pandemia di Covid-19.
Mi
è arrivato un libro di poesie dello stesso tenore, firmato da un insegnante di
Brescia, Raffaele Castelli Cornacchia, scrittore
per adulti e bambini, commediografo. Si intitola La zona rossa (Transeuropa
edizioni, pp. 59, 2020), con riferimento a una delle zone più devastate dal
Covid.
L’autore è stato un positivo sintomatico colpito dal virus, preso con molta
probabilità in ospedale, dove si recava per assistere la madre. È guarito
restando a casa, potendo fronteggiare la situazione. Dunque per sua fortuna non
è stato intubato. Nel suo preambolo egli scrive:
"I nostri cervelli
e i nostri sistemi immunitari fanno il loro lavoro. […] Giorni nei quali ho
fatto con i miei versi quello che ho fatto con il mio corpo: ascoltando poco
quello che si diceva, e molto quello che sentivo."
La zona rossa di
Raffaele Castelli Cornacchia
Il suo stile è asciutto e antilirico, se per lirica in senso negativo si
intende l’annacquare verità con una fuga meramente sentimentale. Spesso
Castelli Cornacchia diventa ruvido e graffiante, scrive versi “al vetriolo”
come afferma, vuole colpire per risvegliare.
La
prima temperatura emotiva e stato esistenziale dei versi è l’estrema
solitudine. Egli non vuole dirla, ma si tratta di un gioco retorico:
sicuramente la dice, e in modo estremamente efficace; intende far comprendere
che chi non prova, veramente, non sa:
“Inghiotti l’onda e la
custodisci / forte dell’assenza cui appartieni / e del silenzio a festa, che
mostri. / Questo non dirò di te, e di noi.”
Nel
suo silenzio abissale il poeta recluso e malato legge il mondo delle abitudini
consuete, superficiali; mondo che appare nudo, falso, quasi una latrina:
"Raccogli lo sterco
che ti circonda / senza che dicano hai scritto bene / senza ironie sulla
metrica / senza il contagio delle abitudini"
Denuncia
le menzogne delle ideologie e delle religioni fintamente sbandierate:
“Una firma / sul cinismo
tragico del finire / di un’epoca lenta e magica / fatta di rivoluzioni bugiarde
/ di sfrenato Io detto a noi / sordo ai padri, muto alle madri / così classici
e tradizionali / entrambi troppo cristiani di dio / eppur privi di sguardo sul
creato / per quel poco che basta a vedere / ciò che senza tempo, è tramandare.”
C’è
la coscienza di una disfatta epocale, la solitudine del singolo ridotto a
burattino, manichino quasi come viene visto l’uomo disumanizzato nelle piazze
deserte di de Chirico.
Oltre:
“Se muoio oggi crepate
pure voi / nel nostro esistere provvisori / ci calcano nella buca assieme /
estranei, amici e fratelli.”
È
una riflessione sul “memento mori”, ma a migliaia di morti con il Covid è stato
negato un funerale dignitoso, cremati frettolosamente senza autopsie. Si
leggono ancora parole vere e dure come pietra:
“Così, rappresentati
degnamente, / da giullari servi e mascherine / crepammo, dimentichi dei
mandanti.”
Una
poesia bellissima è dedicata alla madre, trapassata, a un loro momento di gioia
all’osteria. E ritornare in quel luogo, che diventa una vera chiesa, porta luce
nel cuore.
Abbiamo il recupero del vitalismo, voler assestare pugni e riqualificare il
corpo da amare, un valore da conservare.
"Le radici che
vogliamo mettere / son delle lunghe gambe da amare / un corpo sudato è corpo
vivo"
C’è
la fatica della lotta, la necessità di riconquistare il respiro, il suo ritmo,
con energia mentale e con rabbia:
"Annusa l’aria,
inventa le stelle / prova compassione per ogni zolla / e rabbia, tutta quella
che non scappa / come non sfugge l’insetto pestato. / Sorveglia il battito.
Ritma giusto.”
Respiro
che è soffio, Ruah, Pneuma, la vita
non rubata, non alienabile.
Ecco il recupero della natura, più vicina delle persone, più “umana”, affine
all’energia indistruttibile, e questo sì è assolutamente sentimento lirico:
"Vermiglia città o
ocra campagna / indaco mare o seppia montagna / amaranto lago, o malva
fiume."
È
la passione di un uomo vivo, autentico. È un libro espressionista, severo e
acceso, testimonianza di chi è tornato. Come Ulisse dall’Ade. Come Orfeo, pur
solo, per cantare l’infinita supremazia della poesia, superiore alle maschere
indossate senza pudore da una società che si imbastardisce sempre più, schiava
del potere.
Restano le parole per dire, e sono paragonate a tigri, ma pure a “collane di
labbra”:
“Così in quei giorni
tutti i respiri si riunivano / in collane di labbra che sono diventate parole /
pudiche sincerità, poesie, e cambiamento.”
Possiamo dire di Castelli Cornacchia: egli vive. E noi? Siamo forse vivi? Sappiamo cambiare, morire e rinascere spiritualmente, come la fenice? Chiediamocelo.
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