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Ettore Fobo su LANKENAUTA il 12 ottobre 2020

 


CASTELLI CORNACCHIA RAFFAELE

LA ZONA ROSSA

Pubblicato il: 12 Ottobre 2020

La pandemia reca ai poeti un tema forte che bisogna però affrontare con prudenza e circospezione. Il rischio di precipitare in una retorica posticcia esiste e lo abbiamo visto tutti attraverso il discorso mediatico. Siamo stati rimpinzati di “Ce la faremo” consolatori, abbiamo riscoperto un senso di comunità risibile per lo più canzonettistico, ma con la poesia si tratta di solcare altri mari, vedere altre terre. Parlare del Covid quasi senza parlarne, senza rimanere supini al discorso mediatico che ci vuole immobilizzare in qualche rassicurante, farneticante, dispotico, insieme di luogo comuni.

Per questo l’operazione compiuta da Raffaele Castelli Cornacchia, in questo “La zona rossa” pubblicato da Transeuropa nel giugno del 2020, è particolarmente interessante, perché egli, disertando la retorica più alla moda, il sentito dire delle piazze, affronta sommessamente e spesso indirettamente il tema, fornendo uno scenario linguistico in cui si condensa il dramma collettivo della pandemia con vicende private (la propria esperienza di malato di Covid 19, la morte della madre), considerazioni di estetica “Non c’è ordine nella bellezza”, invettive ”e i prezzi rialzati: bastardi”, sentenze in qualche modo apotropaiche, tentando la via di una terapia poetica ai malcostumi del linguaggio corrente. È un libro duro, attenzione – talvolta questa durezza gli nuoce – perché non ci sono orizzonti di consolazione né giochi verbali d’effetto ma l’elaborazione di un dettato scarno, a tratti volutamente dimesso, opaco, ambiguo, come il mondo in cui viviamo, così fintamente rutilante, di cui questa poesia fornisce uno specchio realistico, stilisticamente e nei contenuti.

Non è una poesia di immagini facili, pittoresche ma un libro scritto per “chi sa indugiare” in una scrittura lenta, pensata, pensante essa stessa quasi fosse un’entità autonoma dal suo autore. Vano cercare ne “La zona rossa” temi di rassicurazione, ma nemmeno scenari apocalittici, pompati dalla paranoia, “l’intimo vuoto non vuole precetti” non vuole nemmeno essere colmato dalla pandemia, vista sottilmente come riempitivo di un vuoto consustanziale all’uomo della contemporaneità. La pandemia intesa anche come spettacolo definitivo forse, intrattenimento macabro per gente svuotata da una narcosi ormai perenne. Tutti appestati, tutti untori: questa la dimensione di una tragica empasse.
La poesia di Raffale Castelli Cornacchia si insinua lentamente fra gli interstizi lasciati liberi dal discorso mediatico che ha fatto sin da subito del Covid 19 una sua proprietà da saccheggiare simbolicamente, nei versi del poeta esso diventa “la peste”.

Particolarmente densa la poesia “Occidente, ali” che mette in questione lo stesso processo di creazione poetica, se noi ci illudiamo di avere idee quando in realtà si digita sul foglio soltanto qualche effetto sonoro, per lo più effimero, poiché dipingere con le parole è impresa pressoché impossibile e la natura profonda del cosmo “non ha interesse per le nostre connessioni logiche”. Su tutto un enorme senso di futilità così forte che il poeta sente di proporre ai suoi lettori nient’altro che ”sentimenti inutili persi in alfabeti” e la testa umana si scopre “alleata di silenzi”. È impossibile imparare alcunché, né dal dolore (come vuole la retorica cristiana che ci fa da sfondo perenne e ormai inconscio), né dai sapienti, dai pazzi, dai padri, dalle madri. Giacché si nasce “per imbrogliare” a noi non resta che inventare le stelle, cioè continuare l’imbroglio, al massimo per andare a ritmo con la “compassione per ogni zolla”, finiti come siamo in una vita prigioniera dove “non si scappa più da nessuna parte” e dove siamo dati “in pasto alla storia”.
Così ne “La zona rossa” le riflessioni del poeta, il suo canto sommesso, diventano materia per indagare il mistero di essere umani in tempi così strani e pericolosi e solo “nel farsi pensiero di ogni cosa” sembra esserci una soluzione. Sono sempre i discorsi, le parole, in particolare le “parole pudiche” della poesia, infatti, a salvarci dal niente e della pazzia e generare un cambiamento autentico di prospettive.

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