La zona rossa
Poesia
Raffaele Castelli Cornacchia
Recensione di
Gian Piero Stefanoni
Pubblicato
il 30/10/2020 12:00:00
Abbiamo già avuto modo di parlare della poesia di Raffaele Castelli
Cornacchia, insegnante della provincia di Mantova (ma bresciano d'adozione),
autore oltre che di poesia anche di libri per bambini e di monologhi per il
teatro. Lo facemmo qualche anno fa (nel 2016) a proposito di Alfabeto della
crisi nel quale si levava un atto di accusa assai potente, e dolente, contro un
sistema economico in cui gli ultimi vanno a esser sempre più esclusi in un
“tempo relegato a rango di merce”. Tanto ardore, tanta indignazione nel dire
una civiltà e un senso che va allargando le maglie delle sue ferite le
ritroviamo in questo ultimo Zona rossa, testo nato come suggerisce il titolo
nel periodo più caldo della pandemia. Il dire però qui ha una sua partenza
prettamente autobiografica, il contagio personale a cavallo del lookdown in
seguito a precedenti accompagnamenti della madre in ospedale fino alla
scomparsa di lei proprio a ridosso di quei giorni. Come ci avverte nella breve
introduzione, la lotta col virus e le modalità d'uscita sono state accompagnate
essenzialmente da una dinamica di ascolto di se stesso e del proprio corpo più
che il coro di parole che sono andate a connotare quei giorni. Ed allora una
dinamica di per sé già molto poetica nella radicalità del suo affondo, raccolta
poi nei versi che seguono a dettare più che un diario una occasione di maggiore
coscienza di sé e di un mondo nell'ipocrisia non più latente delle proprie
suggestioni e dei propri divoramenti. La lotta dicevamo più che con il virus ci
appare oltre che con un corpo nel riflesso dei suoi patimenti ma anche dei suoi
invecchiamenti, o con un'emergenza di isolamento, soprattutto nella tensione
esplosiva di una geografia di luoghi e di anime rovesciate, sommerse e poi
riportate a galla come da una deriva dal fango del proprio quotidiano
infettarsi da reciproche indifferenze, da reciproci egoismi. Non si fa
illusioni Castelli Cornacchia, nella diversità di reazioni che sono andate a
svelarci, insieme tragiche e farsesche nella figura di un sogno, o per meglio
di un incubo il cui treno sempre pronto a muoversi in realtà non parte. La
forza e la vitalità infatti non si improvvisano se la consapevolezza della
storia, e della propria storia, e del mondo non è curata, non ha misura entro
una cura, una riflessione e prossimità costante che vengono da lontano. Per
questo lo sfondo appare dominato da non più oscure sagome manzoniane nella
puntuale metafora del non toccarsi, “del non respirare./Non azzardarsi a
sentire il dolore”. Questo eravamo e siamo, vivi e non vivi, nella equidistanza
“tra Eden e Averno” entro un procedere dentro una Storia osservata nella sua
memoria fatta anche, da sempre, di un rapporto con la vita e con la stessa
morte nella logica del distanziamento e del potere, della disappartenenza, tra
inganni ideologici o della fede con uno sguardo anche al venir meno di chi si è
detto e si dice cristiano (“eppur privi di sguardo sul creato/per quel poco che
basta a vedere/ciò che senza tempo è tramandare”). Questa allora è anche la
“zona rossa” cui il testo fa riferimento da cui altre zone via via finiscono
col vincerci e racchiuderci in contingenze sempre più senza respiro- come
questa di adesso, nella nostra testa impensabile- nella palude allora di nulla
di diverso dalla storia di sempre, a percorrere unicamente le strade delle
recriminazioni vivendo al bordo di fasti, felici: “come dei contadini
baraccati/ intorno l'anfiteatro romano/ perché questa è la nostra scienza”. Il
tutto poi tra facili veloci dimenticati pentimenti e corruzioni- il tono del
libro alzandosi più forte- nell'elemosinare “perle dai mendicanti di
servizi/come dei raminghi senza diritti”. Metafore che ci strappano in un
coinvolgimento cui non si può sfuggire come ne “Le parole appropriate” in cui
il mondo e la vita sgozzata hanno il segno del maiale, della bestia (come dal
sogno e dal ricordo di sé spettatore bambino) squartata, appesa crocifissa
sull'aia; in cui tutte le figure richiamate vengono a chieder conto di idee e
modalità di libertà e partecipazione. Così non a caso è in “26 aprile”, testo
sulla Liberazione del nostro paese, il riferimento il cui corrispondere o meno
alla sua espressione è nel suo post più che nell'evento stesso (la questione
iniziando il giorno dopo); paradigma adesso nella ripresa della curva di una presenza
e di una dinamica di comportamento cui vale e varrà il perché attivo della
coscienza e della custodia reciproca, il nostro essere pienamente umani, uomini
e donne di senso. Zona rossa però resta altamente consigliabile anche per uno
sviscerarsi personale nel quale non è difficile confrontarsi e riconoscersi e
scontrarsi anche all'interno di un periodo che ci ha divelti. Come il
riconoscere, ad esempio, di aver avuto bisogno di abitudini (da lui mai amate)
in una lotta per sopravvivere che richiede ordine nella consapevolezza
crescente poi di dover imparare oltre che da se stessi anche dalla natura che
“sbriciola selci, educa montagne”. Infatti: “il dolore del parto non
addestra/pagine di libri non insegnano/non lo fanno il commiato dei
vecchi/neppure il baccagliare dei pazzi/o il profetizzare dei sapienti/per non
dire dei padri e le madri/gli esempi un avviso, neanche”. Bisogna farsi forti
anche della rabbia. Perché nel tempo di radici da mettere “su lunghe gambe da
amare” si accettano “soltanto pugni/ pugni di parole ben assestati”.
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